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Storie di teatro italiano. L’indimenticabile Carmelo Bene

Inauguriamo questo primo capitolo della nostra rubrica sul teatro italiano alla scoperta dei più grandi attori e registi italiani quando il cinema era ancora agli albori, e le grandi scuole teatrali dominavano ancora la scena della recitazione. Scuole che avrebbero anche formato la prima generazione degli attori neorealisti destinati a dare un imprinting mai più eguagliato alla storia del cinema italiano che ancora oggi è pienamente riconosciuto anche all’estero. Oggi ci occupiamo delle più grandi interpretazioni di uno degli artisti di più grande spessore e forse un po’ dimenticati dell’opera in Italia, il pugliese Carmelo Bene (1937-2002). Perché è considerato, a buon titolo, tra i massimi esponenti del teatro italiano di fine Novecento? Come ha raggiunto fama internazionale?

Il grande spartiacque degli anni Sessanta nell’evoluzione artistica di Bene

Per la qualità delle sue rappresentazioni e per il modo di affrontare la messa in scena come attore, ma anche come regista, Bene non è mai stato figlio del suo tempo, ma ha comunque instaurato inevitabilmente un rapporto dialettico la grande storia. Nel confrontarsi con i tempi che cambiavano, in una sorta di rivoluzione culturale italiana e internazionale, le narrazioni teatrali di Bene si pongono in un rapporto di discontinuità tra la fine degli anni sessanta e gli anni successivi. Da un lato è quindi possibile delimitare una fase pre anni sessanta in cui nelle sperimentazioni di Bene occupano un ruolo centrale lo strumento allegorico e il gusto per il paradossale con degli sconfinamenti verso il grottesco. Memorabili le rappresentazioni dell’Amleto e Nostra signora dei turchi, insieme all’impegno per la neonata radiotelevisione italiana. La prima trasmissione della rai è del 3 gennaio 1954.

Stile che si evolve negli anni Settanta in cui possibile trovare un’evoluzione anche del modo di concepire l’opera teatrale e che raccoglie certamente gli apprezzamenti della critica italiana e internazionale. Momento che apre per Bene anche la strada dell’estero per la sua carriera come regista e attore di teatro. È questo il periodo della creazione di una sua controfigura, una sorta di pseudonimo CB che gli permette di riscuotere un certo successo anche nella più matura televisione. In questo senso la principale novità che ci ha lasciato nel suo operato è una critica costante ed un’aperta polemica nei confronti del comune sentire e buonismo della società italiana post-sessantottina. In questo rapporto di discontinuità del suo operato, possiamo trovare elementi di continuità? Se è possibile trovare un trait d’union che ripercorra tutto il suo operato la parola chiave è certamente: crisi.

Un impegno indefesso per la ricerca artistica. La rappresentazione della crisi

Quanti hanno avuto la fortuna assistere alle sue rappresentazioni, si guardi, ad esempio, a una qualunque delle rappresentazioni dei grandi capolavori della tragedia shakespeariana, sa che queste sono in grado di scendere in profondità nell’opera fino a quasi decostruirla. Una ricerca appunto che si confronta con la stessa natura dell’operazione artistica, al punto di arrivare a una ricerca del teatro che interroga sé stesso.

Certamente influenzato dall’avanguardia novecentesca a cui deve l’analisi freudiana della psiche umana e quindi anche degli strutturalisti del linguaggio, Saussure, in primis, che mette in crisi l’idea stessa di linguaggi e delle sue funzioni.

In questo senso memorabile è la rielaborazione in chiave psicologica dell’epopea collodiana di Pinocchio. Revisione in negativo della storia di crescita del burattino dalla sua condizione infantile a quella di adulto/umano. Una critica feroce che ha allo stesso tempo i tratti della parodia e quelli della rappresentazione grottesca, forme di rappresentazione che elevano la prosa teatrale beniniana ben oltre la vulgata della storia che tutti conosciamo.

Il teatro oltre sé stesso e lo studio semiotico del linguaggio

A proposito di strutturalismo linguistico

Il teatro di Bene è di certo una boccata d’aria per chi si sente costretto dai muri della ricerca intellettuale votata al semplice accumulo campanilistico del sapere. In tutto il suo percorso Bene si allontana dalle torri d’avorio del sapere, ma non degradando verso l’adeguamento al conformismo e al folclore popolare ma in una direzione di indipendenza e di studio bruciante e sconfinato da sperimentatore irrequieto e a tratti disordinato.

Il retroterra culturale è la lezione del semiologo svizzero Saussure e della pura scuola strutturalista. Ovvero, lo strumento dirompente della suddivisione tra significante e significato, che diventa il punto di partenza per smascherare una profonda arbitrarietà di quello che noi chiamiamo linguaggio. Un messaggio che sa diventare liberatorio, consentendo all’artista di smascherare in modo sovversivo ed anarchico gli allestimenti del teatro della retrograda borghesia.

La forma delle parole in questo senso diventa il punto di partenza da cui si riverbera lo sberleffo e la satira dei significati che gli si affollano intorno. Il teatro di Ben, ponendosi in modo critico verso il linguaggio, ha l’alto obiettivo di liberare l’uomo e la sua lingua dalle convenzionalità imposte dalla collettività piegata allo spirito borghese. Lo scopo, oltre che liberatorio, è di portare il suo pubblico in una dimensione di crisi e di critica del dato acquisito, passo inevitabile di una possibile rivoluzione di tipo concettuale. In questo senso forse è ciò oggi più dobbiamo all’opera artistica di Bene, critica che oggi resta attualissima per tutti coloro che si avvicinano a una storia rappresentata, a tutti gli appassionati di teatro come specchio della vita.

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